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Tag: a cosa serve la psicoterapia

Nell’antichità le persone che soffrivano di disturbi mentali gravi aveva due sorti: essere abbandonati all’esilio oppure essere rinchiusi da qualche parte e lasciati lì a morire.

In Italia, lungo la costiera Amalfitana, c’è un piccolo paesino arroccato chiamato Furore; non ci sono strade che conducono alla piccola caletta dal mare color smeraldo, solo in seguito sono stati costruiti degli scalini di pietra che oggi lo collegano alla strada principale.

Gli abitanti del luogo dicono che l’origine del nome derivi dal passato: su quella spiaggetta erano costretti a sbarcare i “pazzi”, i disperati e i delinquenti.

In quel luogo coloro che erano considerati gli elementi di disturbo e di contagio, erano abbandonati al loro destino. Un destino fatto di morte, stenti e sofferenza. Nel nostro passato il matto era allontanato dalla società e Furore, in quel tempo, rappresentava l’anticamera dell’inferno.

Se cerchiamo la definizione letterale di ‘Furore’ leggiamo:

  • Stato di violenza eccitazione, dovuta a grande ira che offusca la ragione.
  • ‘Cieco di furore’, privo di controllo irrazionale.
  • Sentimento profondo, travolgente, desiderio bramoso
  • Impeto delirante

In questa definizione, è interessante notare che i diversi aggettivi si ritrovano nei vissuti e nei resoconti di molte persone con disturbi mentali gravi che hanno avuto esperienze psicotiche.

Qui la psicosi inizialmente è descritta come un’esperienza incredibilmente potente, descritta a tratti come “affascinante” che travolge completamente la personalità del soggetto in uno stato di vuoto e impotenza. Nel paesino di Furore troviamo quel collegamento tra la follia e all’acqua ( forza delle onde del mare), descritto anche da Foucault nella Nave dei Folli; l’acqua è la forza dell’emozioni e degli istinti, che ha il potere di condurre alla deriva e distruggere Lungo la nostra storia, se percorriamo le antiche raffigurazioni Medioevali eRinascimentali, scopriamo le antiche simbologie dell’ alienazione e dell’ostracismo a cui erano condannati, non solo quelli che venivano chiamati “folli” o i “dementi”, ma anche coloro che ricercavano la verità alternativa alla morale del tempo e mettevano in discussioni le istituzioni sociali e religiose.

Nell’iconografia antica, il “folle” è vestito di stracci e vaga tra l’indifferenza della gente, non ha dimora perché da sempre è respinto dalla società, egli si abbandona alla propria esistenza nell’accettazione del suo triste destino. In questa rinuncia obbligata, la sua vita è intrisa di sofferenza. Tuttavia come spesso è raffigurato il Matto porta con se un fagotto, una piccola borsa, ossia i suoi segreti, le comprensioni più profonde circa la verità ultima dell’anima: egli ha avuto accesso al mondo dell’irrazionale e dell’inconscio ma ha pagato caro il prezzo dell’ottenimento della questa conoscenza. Ormai la sua mente è rotta…spaccata in due.

Il Matto non può più stare nella società, non ne accetta i limiti le regole e le convenzioni. La sua vita è fatta di rifiuti, abbandoni e rinunce.
Nella storia della Psichiatria e degli ospedali il “contenimento” e la violenza sono ancora nell’immaginario del paziente psichiatrico.
Nell’antipsichiatria di Jaspers, il disturbo mentale è dotato di un senso legittimo e il delirio è una manifestazione del suo vissuto.
In passato la relazione del medico con il malato era inizialmente improntata su una ricerca ossessiva di cause e sintomi e non si poteva neanche parlare di ‘relazione’ fra i due ma semplicemente di soggetti osservati dall’occhio clinico del medico.

In opposizione, senza negare l’esistenza di stati di disagio, l’Antipsichiatria sosteneva che nella maggior parte dei casi si trattasse, non di malattie organiche, disfunzioni o disturbi, ma di condizionamenti psicologici e ambientali, dove anche la società è responsabile nel disagio mentale della persona.

Pierangelo Di Vittorio mette in luce i limiti e i contrasti che concretamente si sono osservati in Italia, quando Basaglia ha cominciato a chiedersi che cosa fosse la malattia mentale: “Tutto il periodo di Gorizia è caratterizzato da questo allargamento del problema della malattia mentale da una prospettiva strettamente psichiatrica ad una prospettiva prima socio-culturale e poi socio-politica.

Perciò la messa tra parentesi della malattia costituisce il punto critico. […] Si tratta di far sorgere il problema della malattia mentale nel contesto sociale. […] “[1] Ancora oggi alla società contemporanea la follia, la disabilità, il diverso e lo straniero fanno ancora molta paura.

A volte non sembra che le cose siano poi cosi cambiate rispetto al passato: gli antichi nuclei di ‘espulsione’ e ‘rifiuto’ si muovono ancora nelle profondità degli abissi e nella mente delle masse politiche e sociali. Molti pazienti portano in terapia un senso d’ ineguatezza, solitudine e abbandono nel sentirsi parte della società.

Alla base di ciò sembra sia molto forte il desiderio di essere accettato. Mentre, nel Medioevo e nel Rinascimento il Folle manifestava la sua esperienza psicotica attraverso un’ energia dolorosa immensa e distruttiva. Ora sembra che il malato abbia accettato il compromesso sociale di mascherare la propria follia: disperatamente brancola dentro a se stesso cercando di sopravvivere costruendosi come puo ogni sorta di “personaggio fittizio”, da pubblicare in rete o per vivere nei social media.

Una personalità fittizia che non sarà mai abbastanza forte da permettergli di sopravvivere nella giungla sociale all’interno degli standard odierni. Resnick in “L’esperienza psicotica” parla di “isole socializzanti” rispetto ruolo del terapeuta: per poter comunicare, il terapeuta deve prendersi cura dello spazio psichico dell’altro, dato che l’intervento di parola condiziona in qualche modo lo spazio dell’altro. Essere consapevoli della reciprocità del transfert e dell’induzione implica, in linguaggio psicoanalitico, essere del modo in cui ci si sente coinvolti e responsabili”[2]

La responsabilità eticae e umana è infatti il punto di partenza che permette di farci carico con consapevolezza e impegno della complessità e del dolore vissuto che, ogni giorno, il paziente porta con se nel percorso terapeutico.

 

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Dai sogni ai pittogrammi egizi: le porte per l’inconscio

Esiste un parallelismo tra l’arte e i sogni: entrambi permettono di esplorare l’inconscio e di aiutare contenuti psichici a raggiungere gradualmente la consapevolezza. Per questo sono molto preziosi per la psicoanalisi. Lo diceva già Sigmund Freud, che attraverso lo studio dei pittogrammi dell’antico Egitto, ebbe importanti intuizioni su come funziona il nostro mondo interno.

di Ilaria Bruschi

Nel 1900 Freud pubblica L’Interpretazione dei Sogni, un libro dedicato al tentativo di comprendere il funzionamento del nostro mondo onirico. Freud definirà i sogni come “la via regia verso l’inconscio”. Più tardi approfondirà i pittogrammi dell’Antico Egitto, e in seguito le espressioni artistiche di pittori e scrittori, e troverà delle similitudini con il mondo onirico.

L’interpretazione dei sogni e l’espressione artistica si muovono infatti sul medesimo piano: entrambe traggono i loro contenuti da elementi, desideri e pensieri situati nell’inconscio, ovvero al di fuori della coscienza, e cercano di portarli alla consapevolezza.

Il processo inconscio nel sogno e nell’arte

I contenuti mentali inconsci sono spesso molto conflittuali o inaccettabili per una persona. Per questo motivo, essi non possono presentarsi alla coscienza in modo diretto, ma devono essere camuffati sotto sembianze tollerabili per il sognatore.

Nel sogno, per esempio, i desideri e gli istinti profondi possono essere “messi in scena” solo dopo essere stati trasformati. Il vero contenuto del sogno – detto contenuto latente – rimarrà quindi nascosto, mentre la persona, al risveglio, sarà consapevole solo del contenuto manifesto, ovvero ciò che il sistema psichico reputa accettabile mostrare senza censure e senza destare dal sonno.

Nel processo di creazione artistica sembra accadere qualcosa di simile. L’artista produce la sua opera attraverso un continuo mescolarsi di contenuti manifesti (quelli accessibili alla coscienza) e contenuti latenti (quelli più nascosti), e questo processo è visibile dalla ricerca di particolari materiali, dall’uso di impressioni, immagini e ricordi per traslare la propria esperienza. Un esempio molto semplice di questo movimento circolare di processi consci e inconsci è riportato in un celebre passo di Alla ricerca del Tempo perduto di Marcel Proust dedicato alla madeleine: il sapore di un dolce biscotto – non a caso a forma di conchiglia o di barchetta – proprio queste particolari sembianze unite al sapore tipico del dolce fanno riaffiorare nella mente del protagonista, momenti dell’infanzia ormai scordati da tempo.

L’arte come supporto per la psicoanalisi

Per questa capacità degli artisti di accedere ai contenuti inconsci, i poeti, gli scrittori e gli artisti sono considerati dalla psicoanalisi e dallo stesso Freud “preziosi alleati”. Quando si parla di arte e psicologia, insomma, i confini interdisciplinari non sono così netti e si può spaziare tra estetica, filosofia, antropologia e psicologia.

La psicoanalisi studia la produzione artistica e la personalità dell’artista stesso perché ha sempre ritenuto che l’arte fosse manifestazione indiretta dell’inconscio. L’arte è quindi una possibile strada da percorrere per accedere all’umwelt, l’inconoscibile, quella parte di noi non accessibile alla mente presente e razionale.

L’obiettivo della psicoanalisi è riconciliare le parti consce con l’inconscio. Ciò è possibile grazie alle conversazioni nella stanza di analisi, quindi attraverso il linguaggio verbale (non a caso la psicoterapia fu chiamata da una delle prime pazienti di Freud “la terapia della parola”). Tuttavia, spesso, per raggiungere profondità maggiori nel lavoro terapeutico, può essere utile affidarsi a strumenti che permettono di svelare l’inconscio con maggiore rapidità, come si fa con i disegni.

Non per niente, per molti secoli artisti e scienziati annotavano i propri pensieri sotto forma di immagini spontanee: basti ricordare i manoscritti di Leonardo da Vinci (per esempio quello della macchina volante) oppure il taccuino d’appunti del fisico Stephen Hawking nello studio dei diagrammi spazio tempo.
Ancora più lontano nel tempo, nell’antica pittura muraria e sui papiri dell’antico Egitto, la scrittura era associata alle immagini e aveva un valore sacro, non solo perché possedeva un valore religioso, ma perché connetteva insieme le parti fondamentali del sistema psichico dell’essere umano: il pensiero, il linguaggio e le immagini, favorendo il processo simbolico e la creazione di “archetipi”.

I pittogrammi egizi come i sogni

Nel 1910 Freud compone un breve articolo con il titolo “Significato opposto delle parole primordiali”. In questa opera riprende molti passi dell’Interpretazione dei Sogni e in particolare del funzionamento del mondo onirico. Freud aveva individuato le qualità intrinseche delle immagini geroglifiche e collegava il valore dei pittogrammi al funzionamento del mondo onirico inconscio. “L’Egitto non era per niente patria dell’assurdo” spiega Freud, “fu al contrario uno dei primissimi luoghi ove si sviluppò la ragione umana… Conosceva una morale pura e aveva formulato gran parte dei Dieci Comandamenti”.

Così come nel flusso delle immagini oniriche (i “terrirori dell’Es”) non esiste negazione (nel sogno spesso significati opposti e contrastanti vengono uniti e rappresentati insieme), allo stesso modo, scrive Freud, “nella lingua egizia, reliquia unica di un mondo primitivo, si trova un considerevole numero di parole, con due significati, uno dei quali indica esattamente l’opposto dell’altro. Nel pittogramma ogni concetto disegnato è gemello del suo contrario, per esempio non era possibile concepire l’idea di forza senza quella di debolezza. Nella scrittura ciò avveniva con l’ausilio delle cosiddette immagini che, poste dietro ai segni delle lettere, ne indicano il senso ma non erano destinate alla pronuncia. Quando la parola egizia ‘Ken’ deve significare ‘forte’, dietro al suo scritto alfabeticamente sta l’immagine di un uomo retto, armato. Quando la stessa parola deve esprimere il significato ‘debole’, le lettere che lo rappresentano seguono l’immagine di una persona accovacciata”.

L’arte svela il mondo interiore universale Lo scritto di Freud ci fa capire come le immagini prodotte dalla mente evochino un senso ben più articolato e diverso da quello ovvio (il “contenuto manifesto”). Le associazioni mentali che spesso affiorano nella nostra mente sotto forma di immagini, infatti, non rappresentano unicamente il funzionamento del nostro pensiero ma vere e proprie “tappe evolutive” della formazione del mondo interiore.

L’artista, colui che dipinge e narra, non è solo un mediatore estetico di forma e bellezza, ma implicitamente assume l’arduo compito di interprete di una realtà interiore e universale, impegnandosi a trasmetterla e renderla fruibile nello scorrere del tempo, dall’antichità sino a oggi e per tutte le generazioni future

 

 

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L’Altro’ come specchio ‘scomodo’ – Nuove visioni del Mito di Narciso

E’ proprio vero che – come dice J. P. Sartre – “L’Altro è l’inferno”?
E noi quale inferno vediamo? Il nostro o quello dell’Altro?

Nell’antica Grecia esistono parecchie versioni del Mito di Narciso, la cui lettura può essere interessante per la tematica dell’Io che si riconosce attraverso lo sguardo dell’Altro e nel simbolismo dello ‘specchio’.
In entrambi i miti comunque Narciso purtroppo annega… è incastrato nel riflesso dell’Altro: invece di cogliere se stesso cerca di afferrare nell’acqua un’illusione che alla fine lo distrugge.

Attraverso lo specchio, l’Altro è solo un riflesso di noi.

Nella visione classica del mito che noi tutti conosciamo, Narciso respinge l’amore della ninfa Eco, nel pensiero comune questo passaggio è stato spesso interpretato con l’immagine di un uomo che non vuole una compagna che lo possa completare, non vuole crescere e non si mette in discussione sui propri limiti e così muore costretto a raggiungere la propria immagine rispecchiata nell’acqua.

Nella seconda versione che Ovidio dà del mito, riportata dallo psicoanalista Mauro Fornaro nel Soggetto Mancato (ed. Studium, 2000, Roma), “Narciso muore non perché innamorato della sua immagine ma quando si avvede che il suo alter ego è solo un illusione. infatti fino ad ora aveva creduto che quanto vedeva nell riflesso non fosse la sua immagine bensi un’altra persona reale. Allora Narciso piu che un narcisista sarebbe in realtà un depresso, che ha perduto l’oggetto d’amore creduto reale. Non è secondario che anneghi nella fonte di cuila madre Liriope è la ninfa

Il mito antico in entrambe le accezioni conferisce al riflesso della propria immagine la qualità di momento in cui è possibile attuare, un processo di esplorazione del proprio sè, il cui esito se non adeguatamente affrontato e mediato dall’Altro può dare conseguenze drammatiche.

Nei momenti successivi alla nascita, la vulnerabilità dell’organismo e la dipendenza dall’ambiente materno sono totali. Ester Bick, essendo profondamente consapevole dell’esperienza della corporeità e del ruolo dell’accudimento, descrive la funzione esercitata dal contatto fisico e dalla pelle, un fattore determinante che aiuta a stabilire nel bimbo un confine tra mondo interno ed esterno e come questo contatto con l’Altro garantisce il passaggio dal vissuto fisiologico di non-integrazione ad un vissuto di autocontenimento corporeo permettendo la formazione del mondo psichico del bambino.

E’ la madre, cioè l’Altro, che pone le basi per la salute mentale dell’individuo. Secondo l’Infant Research, madre e bambino possiedono pre-requisti di carattere innato che attivano in entrambi, i medesimi stati emotivi; essi emergono con tutta la loro forza emotiva dalla qualità della interazioni tra i due e dalle diverse sfumature empatiche visive ed espressive.

Se la relazione tra essi non segue una specifica sintonia emotiva e lo sguardo e l’espressivita della madre sono evitante, oppure espressività fissa e amimica, le conseguenze sono disastrose: le medesime descritte nel mito antico: comportamenti di evitamento, ricerca ansiosa, disintegrazione della personalità; tutto quello che accade a Narciso sulle sponde delle stagno.

Quello che l’essere umano percepisce nei primi anni vita diventa un modello strutturato sulle prime esperienze relazionali pregresse che inciderà positivamente o negativamente nelle successive relazioni affettive dell’individuo. Ecco perchè molte relazioni naufragano, ripetendo sempre i medesimi copioni Molto spesso coloro che ci sono davanti, sono proprio il riflesso ‘giusto’, ma lo specchio è uno ‘specchio scomodo’: non riflette per niente ciò che noi vorremmo vedere.

Allora la colpa è dell’ ‘Altro’…

Puntiamo il dito contro di lui mentre in realtà dovremmo solo avere il coraggio di guardare noi stessi.

Allora come dice J.P. Sartre “l’Altro è l’inferno” perché ci mostra quella parte di noi stessi che non vogliamo vedere a causa dei nostri vissuti irrisolti e delle nostra paure.
E’ proprio vero che non possiamo cambiare l’Altro: questo è una vera illusione, ma possiamo per prima cosa, cercare di cambiare noi stessi

 

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Nel 1612, a Roma scoppia uno scandalo nel mondo degli artisti, Orazio Gentileschi, allievo di Caravaggio e padre di Artemisia, denuncia un suo collega Agostino Tassi per aver abusato della propria figlia e di avergli rubato un quadro.

Ai tempi della violenza, Artemisia ha appena 17 anni anche lei è un abile pittrice, allieva stessa dei due pittori infatti amici e colleghi che di frequente lavoravano assieme e per queste ragioni Orazio chiede ad Agostino di insegnare le regole della prospettiva alla figlia. L’anno seguente con grande clamore, Orazio Gentileschi, denuncia, con una supplica papale, l’amico Tassi di aver violato la figlia ma possibile che veramente non sapesse nulla dell’intrigo amoroso tra i due amanti? E dell’inganno piu volte menzionato da Artemisia nel processo che Agostino le aveva promesso di sposarla (peraltro già sposato).

Dagli atti del processo che coinvolge molti altri personaggi emerge un padre Orazio che piu che padre, assomiglia più ad un padrone: egli non esita a esporre l’intimità della figlia ai giudici, sottoposta a pubblici controlli ginecologici e alla tortura della sibille, uno strumento in cui le le dita del condannato era stritolate con da funicelle, rischiando così di rovinare per sempre oltre che la virtù della propria figlia anche l’abilità nella pittura.

Il processo si conclude con la completa rovina di Agostino Tassi ma determina la completa ascesa pittorica di Artemisia che trae dalla vicenda una spinta creativa completamente nuova attingendo dalla propria forza interiore e dalla propria arte una completa emancipazione dal padre ed un suo personale stile pittorico ormai indipendente.

La pittrice reagisce ai traumi degli abusi perpetrati con l’unica arma a cui ha disposizione la tela, l’intelligenza e la propria abilità in pittura Artemisia diventa una donna completamente libera, socialmente ed economicamente, riceve numerose committenze comincia a dipingere temi che narrano storie di donne spesso violate e vendicative che crudelmente uccidono.

Due opere sono gli emblemi della vicenda del processo: Susanna e i vecchioni, in cui una giovane viene molestata da due uomini datato 1610 e Giuditta che decapita Oloferne in cui la protagonista è la stessa pittrice, opera immediatamente dipinta negli anni che seguono il processo.

Nelle opere la pittrice manifesta tutto il suo disgusto con cui cerca di guarire la propria ferita di umiliazione attraverso la sublimazione pulsioni sia erotiche che aggressive. Due pulsioni che in equa miscela si dosano nei dipinti e che ne caratterizzano l’intensa forza espressiva.

Nella storia di questa pittrice non si puo solo parlare di resilenza e di forza dei propri meccanismi difensivi che le permettono di superare il dolore ma di vero e proprio riscatto emotivo e morale che anche oggi a molte donne è negato ma che la pittrice se lo prende con tutte le sue capacità intellettuali ed artistiche perchè capisce che può attingerlo solo in se stessa ed esso non può provenire nè dalla giustizia nè dalla sua famiglia.

Tuttavia Artemisia sa che la vendetta non è una forma di riscatto ma solo un modo aggressivo di reagire alle violenze e molti anni più tardi, dopo decenni di silenzio tra padre e figlia; la pittrice viene chiamata a Londra da Carlo primo d’Inghilterra, nel 1638, per dipingere con il padre Orazio, un’opera che segna il suo perdono, la loro nuova collaborazione non piu come aiutante del padre ma come professionista a pieno diritto, dà origine ad una magnifica opera “Il trionfo della pace e delle arti”, un anno dopo il padre ormai anziano muore e Artemisia ritorna a Napoli come pittrice di fama internazionale.

 

 

 

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A cosa serve la psicoterapia

Quando l’omicidio diventa lo sport nazional

“Ti amerò fino ad ammazzarti” è un film di Lawrence Kasdan, girato negli anni novanta negli Stati Uniti. A primo sguardo sembra una commediola superficiale, piena di clichè sugli americani e sugli italiani immigrati ma in maniera tagliente e sottile, mette profondamente in discussione la mancanza di valori che svuotano le nostre relazioni affettive e la nostra cultura.

Questo film rappresenta un pò il prosieguo di un film italiano molto importante, girato da Pietro Germi nel 1961, “Divorzio all’italiana” e che critica apertamente le legge sul diritto d’onore; non a caso le co-protagoniste (le mogli) dei rispettivi film, si chiamano entrambe “Rosalia”.

Nel film di Kasdan, il protagonista “Joe” è un pizzaiolo adultero, padre di buona famiglia che dichiara di amare la propria moglie ma di tradirla almeno “cinque sei volte a settimana” e questo perchè lui del resto è “masculo” e, il “masculo”, quello vero, sente di essere un uomo virile solo se tratta la moglie come una serva e la riempie di corna.

Rosalia invece è una mamma che lavora e lo ama profondamente e non si lamenta se il marito la tratta così: Joe è un uomo onesto e un bravo lavoratore (del resto lavora tanto quanto lei, ma lei, in primis, non considera se stessa importante tanto quanto lui) e per questo lo giustifica ed è contenta di servirlo e riverirlo. Rosalia è cieca, non vede i tradimenti e le disparità ma cosa peggiore, le giustifica; nonostante tutto il contesto intorno a lei sussurri dubbi e sospetti, offrendole l’opportunità di aprire gli occhi.

Rosalia alla fine lo scopre e decide di ammazzarlo, perchè – come la madre stessa le spiega- “uccidere per adulterio è un dovere e nessuno lo scoprirà mai perchè siamo in america e in america uccidere è uno sport nazionale”(op cit.film).

Nel film, infine, l’omicidio non avviene date una serie di rocambolesche situazioni ma la cosa più interessante è che Joe, con incredibile sorpresa, perdona la moglie per il fatto che – e qui si manifesta tutta la perversione dei legami patologici- Rosalia, desiderando ucciderlo, ha dimostrato al marito tutto il suo amore attraverso questo gesto passionale estremo: ella lo ama, lo ama in modo così passionale che è disposta ad ucciderlo e finire in prigione. Da qui deriva il titolo del film che, intenzionalmente mette in ridicolo tutti gli stereotipi retrogradi delle relazioni sentimentali di cui la nostra cultura è ancora oggi permeata, legittimando passioni estreme e senso di possesso egoistico, intesi come indice di misurazione dell’intensità “dell’amore” che il partner nutre per noi.

Kasdam e Germi vanno oltre la semplice questione femminile e maschile e mischiano i ruoli di vittime e carnefici, attaccando direttamente l’ipocrisia del tessuto sociale in cui vivono queste malsane credenze.
I registi mettono completamente in ridicolo i ragionamenti assurdi con cui i protagonisti si giustificano e li trasformano in caricature grottesche: essi non si comportano come amanti travolti dai sentimenti ma come portatori di un pensiero e una mentalità profondamente criminale.

I love you to death” (traduzione inglese titolo originale: ti amo da morire oppure ti amo alla follia)
Con un colpo di satira e uno di commedia, Kasdam e Germi contestano e mettono alla berlina, l’ipocrisia della relazioni affettive tossiche, l’uso indiscriminato delle armi e la manipolazione del sistema giudiziario a proprio vantaggio.
I clichè descritti in questi film, ormai, più di cinquanta anni fa sono ancora tremendamente attuali, basta aprire le pagine di un qualsiasi giornale ogni mattina per leggere di omicidi, raptus e denunce di violenze mai ascoltate. Senso del possesso, gelosia e mancanza di rispetto sono le basi delle relazioni tossiche; basi su cui si innestano comportamenti aggressivi (anche verbali) molestie e maltrattamenti e trascuratezza affettiva.

Per secoli e secoli siamo stati convinti che la passione amorosa fosse la manifestazione di un affetto profondo invece al contrario rappresenta l’anticamera del maltrattamento.
Maltrattamento da cui poi è difficile tornare indietro e quasi impossibile chiedere aiuto perchè la “sposa cadavere” rimane muta; mentre le parole di Mastroianni protagonista del film di Germi, risuonano forti ed emblematiche: gelido monito agli spettatori e, per tutti noi che, assistiamo inermi, ogni giorno a questi omicidi.

“In questo angolo di Sicilia (o di Italia, citaz. mia) non sono pochi i defunti per motivi d’onore.(o d’amore patologico)…Povera Rosalia, non te lo meritavi…non te lo meritavi… Ma io so che adesso riposi…. riposi assieme ai i tuoi piccoli, ingenui sogni.
Davvero Rosalia io ti ho amata… ma tu eri troppo… troppo …e mi chiedevi quanto mi vuoi bene…”.
“I love you to death”

 

 

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A cosa serve la psicoterapia

Nella comune accezione la psicoterapia è un percorso terapeutico che si intraprende per gestire comportamenti disfunzionali o alleviare la sofferenza che deriva da taluni stati d’animo. Questa visione è parziale. Per capire questa affermazione bisogna prima comprendere cos’è, nella sua essenza, la psicoterapia.

Psicoterapia, in cosa consiste?

La psicoterapia è un percorso di crescita e di cambiamento di natura dialogica. Si sviluppa, infatti, su più sedute nel corso delle quali un paziente si relaziona con il proprio terapeuta allo scopo di scoprire in modo sempre più profondo il proprio mondo interiore. La conoscenza di sé, che non è autoreferenziale ma che scaturisce dal confronto con un altro (il terapeuta), porta a comprendere la natura di blocchi, limiti e disagi, e consente anche di trovare le risorse necessarie per poterli superare o gestire. Un percorso interiore sincero aiuta anche a individuare potenzialità inespresse, a compiere scelte con piena consapevolezza, a migliorasi e così via.

Cosa aspettarsi dalla psicoterapia?

  • Possono essere curati comportamenti o vissuti disfunzionali e disturbi come cambiamenti ingiustificati dell’umore, ansia, attacchi di panico etc.
  • Si possono superare momenti di crisi o eventi di vita destabilizzanti.
  • Si può crescere come persone e prendere in mano la propria vita con una maggiore consapevolezza.
  • Si possono conoscere davvero le proprie potenzialità e sviluppare quelle ancora inespresse per raggiungere una maggiore pienezza e soddisfazione.

La psicoterapia, in parole semplici, è uno strumento valido per promuovere la propria crescita sociale, affettiva, lavorativa e personale.

Il successo o meno di una terapia è legato a tanti fattori. Volendo semplificare al massimo possiamo indicare due elementi importanti: il rapporto di sincerità e fiducia con lo psicoterapeuta, la volontà del paziente di lavorare su di sé.

Psicoterapia: quando serve?

Il ricorso alla psicoterapia è, in alcuni casi, una necessità lampante: ci si rende conto del proprio comportamento disfunzionale, oppure si è oppressi dall’ansia e il disagio spinge a ricercare un aiuto. Spesso lo si fa quando i sintomi sono divenuti ormai insopportabili o in seguito a qualche episodio eclatante.

A parte queste evenienze, si può ricorrere allo psicoterapeuta anche per intraprendere un percorso di sviluppo della personalità e della potenzialità, per ridefinire i propri obiettivi, per superare blocchi o momenti di crisi che ci chiedono un cambiamento, per migliorare la propria performance nello sport anche amatoriale, sul lavoro, e in ogni ambito di vita.

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