Nell’antichità le persone che soffrivano di disturbi mentali gravi aveva due sorti: essere abbandonati all’esilio oppure essere rinchiusi da qualche parte e lasciati lì a morire.
In Italia, lungo la costiera Amalfitana, c’è un piccolo paesino arroccato chiamato Furore; non ci sono strade che conducono alla piccola caletta dal mare color smeraldo, solo in seguito sono stati costruiti degli scalini di pietra che oggi lo collegano alla strada principale.
Gli abitanti del luogo dicono che l’origine del nome derivi dal passato: su quella spiaggetta erano costretti a sbarcare i “pazzi”, i disperati e i delinquenti.
In quel luogo coloro che erano considerati gli elementi di disturbo e di contagio, erano abbandonati al loro destino. Un destino fatto di morte, stenti e sofferenza. Nel nostro passato il matto era allontanato dalla società e Furore, in quel tempo, rappresentava l’anticamera dell’inferno.
Se cerchiamo la definizione letterale di ‘Furore’ leggiamo:
In questa definizione, è interessante notare che i diversi aggettivi si ritrovano nei vissuti e nei resoconti di molte persone con disturbi mentali gravi che hanno avuto esperienze psicotiche.
Qui la psicosi inizialmente è descritta come un’esperienza incredibilmente potente, descritta a tratti come “affascinante” che travolge completamente la personalità del soggetto in uno stato di vuoto e impotenza. Nel paesino di Furore troviamo quel collegamento tra la follia e all’acqua ( forza delle onde del mare), descritto anche da Foucault nella Nave dei Folli; l’acqua è la forza dell’emozioni e degli istinti, che ha il potere di condurre alla deriva e distruggere Lungo la nostra storia, se percorriamo le antiche raffigurazioni Medioevali eRinascimentali, scopriamo le antiche simbologie dell’ alienazione e dell’ostracismo a cui erano condannati, non solo quelli che venivano chiamati “folli” o i “dementi”, ma anche coloro che ricercavano la verità alternativa alla morale del tempo e mettevano in discussioni le istituzioni sociali e religiose.
Nell’iconografia antica, il “folle” è vestito di stracci e vaga tra l’indifferenza della gente, non ha dimora perché da sempre è respinto dalla società, egli si abbandona alla propria esistenza nell’accettazione del suo triste destino. In questa rinuncia obbligata, la sua vita è intrisa di sofferenza. Tuttavia come spesso è raffigurato il Matto porta con se un fagotto, una piccola borsa, ossia i suoi segreti, le comprensioni più profonde circa la verità ultima dell’anima: egli ha avuto accesso al mondo dell’irrazionale e dell’inconscio ma ha pagato caro il prezzo dell’ottenimento della questa conoscenza. Ormai la sua mente è rotta…spaccata in due.
Il Matto non può più stare nella società, non ne accetta i limiti le regole e le convenzioni. La sua vita è fatta di rifiuti, abbandoni e rinunce.
Nella storia della Psichiatria e degli ospedali il “contenimento” e la violenza sono ancora nell’immaginario del paziente psichiatrico.
Nell’antipsichiatria di Jaspers, il disturbo mentale è dotato di un senso legittimo e il delirio è una manifestazione del suo vissuto.
In passato la relazione del medico con il malato era inizialmente improntata su una ricerca ossessiva di cause e sintomi e non si poteva neanche parlare di ‘relazione’ fra i due ma semplicemente di soggetti osservati dall’occhio clinico del medico.
In opposizione, senza negare l’esistenza di stati di disagio, l’Antipsichiatria sosteneva che nella maggior parte dei casi si trattasse, non di malattie organiche, disfunzioni o disturbi, ma di condizionamenti psicologici e ambientali, dove anche la società è responsabile nel disagio mentale della persona.
Pierangelo Di Vittorio mette in luce i limiti e i contrasti che concretamente si sono osservati in Italia, quando Basaglia ha cominciato a chiedersi che cosa fosse la malattia mentale: “Tutto il periodo di Gorizia è caratterizzato da questo allargamento del problema della malattia mentale da una prospettiva strettamente psichiatrica ad una prospettiva prima socio-culturale e poi socio-politica.
Perciò la messa tra parentesi della malattia costituisce il punto critico. […] Si tratta di far sorgere il problema della malattia mentale nel contesto sociale. […] “[1] Ancora oggi alla società contemporanea la follia, la disabilità, il diverso e lo straniero fanno ancora molta paura.
A volte non sembra che le cose siano poi cosi cambiate rispetto al passato: gli antichi nuclei di ‘espulsione’ e ‘rifiuto’ si muovono ancora nelle profondità degli abissi e nella mente delle masse politiche e sociali. Molti pazienti portano in terapia un senso d’ ineguatezza, solitudine e abbandono nel sentirsi parte della società.
Alla base di ciò sembra sia molto forte il desiderio di essere accettato. Mentre, nel Medioevo e nel Rinascimento il Folle manifestava la sua esperienza psicotica attraverso un’ energia dolorosa immensa e distruttiva. Ora sembra che il malato abbia accettato il compromesso sociale di mascherare la propria follia: disperatamente brancola dentro a se stesso cercando di sopravvivere costruendosi come puo ogni sorta di “personaggio fittizio”, da pubblicare in rete o per vivere nei social media.
Una personalità fittizia che non sarà mai abbastanza forte da permettergli di sopravvivere nella giungla sociale all’interno degli standard odierni. Resnick in “L’esperienza psicotica” parla di “isole socializzanti” rispetto ruolo del terapeuta: per poter comunicare, il terapeuta deve prendersi cura dello spazio psichico dell’altro, dato che l’intervento di parola condiziona in qualche modo lo spazio dell’altro. Essere consapevoli della reciprocità del transfert e dell’induzione implica, in linguaggio psicoanalitico, essere del modo in cui ci si sente coinvolti e responsabili”[2]
La responsabilità eticae e umana è infatti il punto di partenza che permette di farci carico con consapevolezza e impegno della complessità e del dolore vissuto che, ogni giorno, il paziente porta con se nel percorso terapeutico.
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